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Piatto o ondulato?

La corsa al record spinge la maggior parte degli organizzatori delle corse su strada (e delle maratone in particolare) ad “appiattire”, per quanto possibile, il percorso.
L’obiettivo è di eliminare o (almeno) attenuare ogni asperità che possa appesantire, anche di pochi secondi, il tempo finale, come un cavalcavia o un sottopasso, una rampetta di collegamento, un tratto con fondo sdrucciolevole.
Berlino, Londra, Chicago, Rotterdam sono un punto di riferimento sicuro per tutti i runners che ambiscono a migliorare il proprio primato personale. In Italia si presentano con gli stessi requisiti Milano, Carpi, Padova, Ferrara (Vigarano) …. Altre maratone, non particolarmente impervie per la maggior parte del percorso, sono spesso menzionate per un dettaglio, a volte di difficoltà irrisoria, che viene a dismisura enfatizzato. È il caso di Venezia: per quasi 40km si scorre con assoluta regolarità, come l’acqua del Brenta che fiancheggia per buona parte la strada. Poi i “famigerati” ponti destabilizzano i pensieri di chi si approssima ad affrontarli. Per poi ricordarli, a fine gara, non come un calvario, ma un simpatico diversivo ed un inconfondibile segnale che il traguardo è ormai vicino.
Sarà, poi, vero che un cambio di pendenza, un’irregolarità del tracciato, un percorso definito “duro”, siano situazioni sgradite ai campioni della corsa? Analizzando la mia esperienza, sembrerebbe proprio di no. I motivi che spingono diversi atleti a gradire la competizione “hard” sono molteplici. Innanzi tutto il campione vero è sempre attratto dai momenti difficili, dalle sfide estreme, dalle situazioni “limite”, difronte ai quali un comune mortale getterebbe subito la spugna. La calma, virtù dei forti. Chi ha coniato questo detto avrà prima corso una maratona. Talvolta l’energia, l’irruenza, la forza, la determinazione, la voglia di affermarsi e costringere alla resa l’avversario si scontrano con la paziente attesa che si richiede in una gara lunga 42km. e con la monotona ripetizione di un gesto che, inizialmente, provoca fatica alcuna. Un percorso piatto, in genere, aggiunge monotonia a monotonia, in termini tattici aumenta la “fretta” di chiudere i conti. Al contrario, un percorso irto di insidie rende vario il procedere; muta l’attenzione dell’atleta nelle due ore di gara; modifica il suo atteggiamento sia nella meccanica della corsa sia nelle scelte strategiche; comporta un istintivo turn over delle unità motorie impiegate nel gesto specifico. Questo mix di percezioni, esperienze, risultati, emozioni, fa propendere diversi atleti a preferire i percorsi variamente articolati.
È superfluo rimarcare che altri, forse la maggioranza, preferiscano procedere senza correzioni di rotta. Inseriscono il “pilota automatico” subito dopo la partenza e lo disattivano solo quando la gara entra nel vivo. Di tanto in tanto, scrutano i movimenti degli avversari più blasonati, per carpire qualche smorfia, per leggere le loro reali condizioni fisiche, per prevenire o intercettare qualche tentativo di fuga. Null’altro. Una curva a gomito sarebbe sufficiente a rompere i loro delicati sincronismi, qualche metro di lastricato a perdere contatto con il gruppo, il ponte sulla ferrovia a intossicare i muscoli e impennare il battito cardiaco.
Proviamo, quindi, con un quadretto sinottico, ad individuare le caratteristiche fisiche e psicologiche (spesso collegate) in possesso degli atleti che debbano affrontare due percorsi diametralmente opposti: uno piatto e regolare; l’altro ondulato e/o accidentato.

PIATTO – REGOLARE

– Stabilizzazione e specializzazione della tecnica di corsa
I fattori limitanti delle corse di durata sono legati alla disponibilità di energia e all’efficienza neuro-muscolare. Nell’azione di corsa, tutti i distretti muscolari entrano in azione, ognuno con un compito ben preciso. Ci sono quelli che trasmettono direttamente al suolo le forze per avanzare, ci sono quelli che coadiuvano a mantenere un equilibrio dinamico perché queste forze siano dirette nella direzione voluta, ce ne sono altri che mantengono collegata la parte inferiore del corpo a quella superiore per il mantenimento della postura idea nella stazione eretta. Muscoli che lavorano per pochi centesimi di secondo con violente contrazioni e lunghe escursioni; altri in (quasi) continua contrazione e cortissime escursioni. All’inizio della gara, tutti gli atleti sono in grado di attivare al meglio le strutture muscolari. Reiterare lo stesso gesto, ad uguale intensità per diversi chilometri, produce la sollecitazione delle medesime strutture (nella stessa forma) per tempi prolungati. Gli atleti che abbiano consolidato un equilibrio funzionale di ogni distretto e sviluppato il tono dei muscoli accessori, hanno più possibilità di contrastare l’insorgere della fatica locale e mantenere una corretta tecnica di corsa.
– Alta capacità di concentrazione continuativa e di attenzione introspettiva
Si è disturbati dagli eventi esterni (ambientali) soprattutto quando l’attenzione/concentrazione è posta all’interno del sistema. L’atleta che corre al limite delle sue possibilità per 42km di fila, deve possedere l’attitudine a “concentrarsi per decontrarsi”, due funzioni apparentemente antitetiche. Sono in grado di cadere in una specie di trance-agonistica, durante la quale mandano a memoria un copione tante volte ripetuto. Un banale disguido li “risveglia” con costi, talvolta, incalcolabili.

– Abilità di “turnazione” delle fibre muscolari, lasciando invariato l’assetto (postura), la velocità e il rendimento meccanico
È sufficiente variare di poche frazioni di grado l’assetto posturale per favorire il turnover delle unità motorie, attivando a rotazione una maggiore quantità di fibre. Un “prendere fiato” per mantenere alta l’efficienza della macchina per tempi sempre più lunghi. Gli atleti che preferiscono correre sui percorsi pianeggianti hanno, di solito, consolidato il controllo involontario/volontario della tecnica e affinato i sistemi di retroazione per modificare opportunamente l’assetto di corsa.

ONDULATO – ACCIDENTATO

– Duttilità nel gioco tra ampiezza e frequenza del passo
Siete convinti che gli atleti specialisti delle lunghe distanze siano in grado di gestire la tecnica della corsa, adeguandola alle diverse situazioni? Vi sbagliate. Sono in pochi e, tra questi, chi preferisce i percorsi variegati dovrà, per forza di cose, possedere tale abilità. Affrontare una salita con la stessa ampiezza con la quale si corre sul piano sarebbe deleterio per l’atleta. Come pretendere di valicare il Pordoi in quinta marcia. Per approfondire il tema della tecnica di corsa, potete leggere i miei articoli qui e qui

– Riattivazione neuro-sensoriale di alcuni muscoli latenti che vengono “risvegliati” dalle variazioni di percorso (tale situazione può essere riscontrata anche sui percorsi pianeggianti con i cambi di velocità e/o di tecnica di corsa e/o di postura)
Fate un esperimento. Procuratevi due secchi (o altro oggetto impugnabile e sollevabile): uno di 10 e l’altro di 50kg. Provate a sollevare quello più leggero (tecnica: divaricate le gambe sopra al secchio, piegatele leggermente e impugnate la maniglia con entrambe le mani. Prima di sollevarlo, alzate lo sguardo in avanti. Eviterete di rompervi la schiena). Avrete la sensazione che sia discretamente pesante. Ora sollevate (se riuscite) quello molto più pesante. Posatelo e ritornate a sollevare quello più leggero. Vi sembrerà una piuma, comunque la vostra sensazione sarà completamente diversa tra la prima e l’ultima alzata. Tale metodologia viene applicata dai migliori lanciatori (specie di peso e di martello) poco prima di andare in pedana: sollevano (una/due volte) carichi al limite del loro massimale (talvolta oltre il massimale – cioè non lo sollevano affatto). Sferzano il sistema nervoso perché attivi contemporaneamente la maggior parte di fibre muscolari (sincronizzazione) per aumentare la forza nell’unità di tempo (potenza).

– Trofismo muscolare
La massima efficienza della corsa sul piano si raggiunge sfruttando al massimo le proprietà delle strutture elastiche degli arti inferiori e riducendo al minimo le fasi di decelerazione. In questi casi la tecnica può sopperire alla carenza di forza muscolare. In salita no. L’inerzia sparisce. Ad ogni passo le gambe devono sopportare (quasi) per intero il peso del corpo e spostarlo sempre più in alto. Corre in salita chi è in possesso di elevati gradienti di forza relativa (al peso corporeo).

– Propriocezione ed equilibrio dinamico nel controllo degli appoggi del piede
Nella locomozione umana, normalmente il piede lavora in flesso-estensione, cioè su un unico piano (analisi grossolana, non è proprio così!). Quando “l’ancoraggio” al suolo non è stabile, il piede può andare fuori dal suo asse naturale di lavoro, subendo un notevole stress. In questi casi la forza dei muscoli motori del piede, abbinati alla velocità di risposta dei recettori presenti in tutte le strutture periferiche (propriocettori), consentono non solo di mantenere un assetto di corsa efficace ma, soprattutto, di evitare traumi importanti a carico della caviglia (articolazione tibio-tarsica). Anche questa situazione rientra nella categoria degli stimoli neuro-muscolari e non c’è da meravigliarsi se qualche atleta afferma di sentire il piede più “sveglio” quando corre sui sampietrini.

– Resistenza alla fatica locale (in salita) e capacità di smaltire il lattato accumulato nei tratti in discesa o sul piano
In pianura controllare l’intensità di lavoro è abbastanza semplice. Si fa riferimento alla velocità di corsa. Più l’atleta corre veloce e più diventa “pesante”, più forza deve impiegare per mantenersi stabile, più sarà l’energia spesa. In salita è impossibile “galleggiare” ed è molto difficile “rimbalzare”. La propulsione deriva unicamente dalla contrazione attiva dei muscoli estensori che, per tale ragione, vanno ben presto in asfissia locale. Alcuni atleti sfruttano la maggiore potenza data dai sistemi anaerobici, aumentando la velocità, per poi compensare e smaltire i cataboliti prodotti nei successivi tratti pianeggianti.

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Info sull’autore

Da Piero_incalza / Author il Mag 18, 2020

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